lunedì 18 ottobre 2010

Siamo ciò che pensiamo ( Dhammapada )

"Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo è prodotto dalla nostra mente.
Ogni parola o azione
che nasce da un pensiero torbido
è seguita dalla sofferenza,
come la ruota del carro segue lo zoccolo del bue.

Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo
è prodotto dalla nostra mente.
Ogni parola o azione
che nasce da un pensiero limpido
è seguita dalla gioia,
come la tua ombra ti segue, inseparabile."
Dhammapada

William Blake

"Chi si lega alla gioia,
l'alata vita distrugge.
Chi bacia la gioia al suo passare,
vive nell'alba dell'eternità."
William Blake

domenica 17 ottobre 2010

Niente di speciale. ( C. Joko Bec )

"Che cosa accade con la vera pratica? Perché la sensazione di venire feriti dalla vita inizia col tempo a indebolirsi? Che cosa avviene?
Solo un sé egocentrico, un sé aggrappato a mente e corpo, può essere ferito. Tale sé è in realtà un concetto formato dai pensieri in cui crediamo, ad esempio: «Se non posso averlo, starò malissimo», o «Se non mi va bene, sarà terribile», o «Non avere una casa è davvero orribile». Ciò che chiamiamo il sé non è altro che una serie di pensieri a cui siamo attaccati. Se siamo totalmente assorbiti nel nostro piccolo sé, la realtà, l'energia fondamentale dell'universo, resterà completamente ignorata. [...]
Non vi invito certo a tagliarvi fuori da tutto per essere liberi dall'attaccamento. L'attaccamento non riguarda ciò che abbiamo, ma le nostre opinioni su ciò che abbiamo. [...]
Il lento e difficile cambiamento indotto dalla pratica fonda la nostra vita e le dà più pace genuina. Senza lottare per essere in pace, scopriamo che le tempeste della vita ci colpiscono sempre più lievemente. Iniziamo ad allentare l'attaccamento ai pensieri che identifichiamo con noi stessi. L'io è un concetto che si logora con la pratica.
[...]
L'atteggiamento o comprensione basilare di non essere separati causa un cambiamento radicale nella nostra vita emotiva. Questa comprensione implica che, di fronte a qualunque fatto, non ci sentiamo particolarmente feriti. Ciò non significa non occuparsi dei problemi che si presentano, ma non borbottare mentalmente: «Che cosa terribile! Nessuno passa i guai che io sto passando». È come se la comprensione cancellasse questo tipo di reazioni.
Studente Quindi, sentirsi feriti è solo i nostri pensieri riguardo a una situazione?
Joko Sì. Non identificandoci più con questi pensieri, affrontiamo semplicemente la situazione e non lasciamo che influisca emotivamente su di noi.
Studente Ma possiamo sentirci feriti.
Joko Certo, e non sarò io a negare questo sentimento. Nella pratica lavoriamo con le sensazioni fisiche e i pensieri che sono, nel loro insieme, questo 'mi sento ferito'. Se sperimentiamo totalmente le sensazioni e i pensieri, il 'mi sento ferito' evapora. Non dirò mai che non dovremmo sentire i sentimenti che proviamo.
Studente Allora vuoi dire di lasciar andare l'attaccamento per la ferita?
Joko No. Non possiamo obbligarci a lasciar andare un attaccamento. Anche se l'attaccamento è solo un pensiero, non possiamo decidere: «Adesso lo lascio andare». Non può funzionare. Dobbiamo capire che cos'è l'attaccamento. Dobbiamo sperimentare la paura, la sensazione fisica che sta sotto l'attaccamento. allora l'attaccamento avvizzirà. Un'incomprensione diffusa è che nello Zen dobbiamo 'lasciar andare'. Non possiamo costringerci a lasciar andare. Dobbiamo sperimentare la paura che c'è dietro.
Inoltre, sperimentare l'attaccamento o la sensazione non significa drammatizzarlo. Drammatizzare un'emozione significa nasconderla.
Studente Se sperimentassi davvero la mia tristezza, non avrei più bisogno di piangere?
Joko Possiamo anche piangere. Ma c'è una differenza tra piangere e drammatizzare la nostra tristezza, paura o rabbia. Drammatizzare è il più delle volte un nascondere. Per esempio, una persona che urla, strilla, lancia oggetti e si accapiglia con un altro, non è in contatto con la sua rabbia" (pp. 60, 63Niente di speciale.
Charlotte Joko Bec,Niente di speciale.Vivere lo zen

J. P. Sartre

"Capire significa trasformarsi,
significa oltrepassare se stessi."

J. P. Sartre, Critica della ragion dialettica

Franz Kafka

“Non occorre che tu esca dalla stanza: rimani seduto al tavolo e ascolta.
Non ascoltare neanche, limitati ad aspettare.
No, non aspettare nemmeno: resta tranquillo e solo.
Il mondo ti si offrirà liberamente.
Non ha altra scelta che farsi smascherare”.
Franz Kafka

martedì 12 ottobre 2010

Abbracciare il dolore ( Thich Nhat Hanh )

"Quando i blocchi di dolore, di dispiacere, rabbia e disperazione si fanno più forti e più grossi, premono per salire nella coscienza mentale, nel soggiorno a reclamare la nostra attenzione. Essi desiderano emergere, ma noi non li vogliamo, perchè ci fanno stare male solo a vederli.
Non avendo nessuna voglia di affrontarli, usiamo riempire il soggiorno con altri ospiti: prendiamo in mano un libro, accendiamo la tv, andiamo a fare un giro in macchina... qualunque cosa pur di tenere occupato il soggiorno.
Abbracciare il tuo dolore e il tuo dispiacere con l'energia della presenza mentale è esattamente come massaggiare la coscienza invece che il corpo.
Quando togli l'imbargo e i blocchi di dolore affiorano ti tocca soffrire, almeno un po', non c'è modo di evitarlo. Occorre imparare ad abbracciare questo dolore. Dopo che avrai abbracciato per qualche tempo i tuoi dolori, essi torneranno in cantina e si ritrasformeranno in semi.
Se invitiamo il seme della paura ad uscire allo scoperto, siamo anche meglio equipaggiati per prenderci cura della rabbia.
E' la paura a generare la rabbia: quando hai paura non sei in pace e questo tuo stato diventa il terreno dove la rabbia può crescere.
La paura si fonda sull'ignoranza, mancanza di chiara comprensione.
Immergi quotidianamente la tua rabbia, la tua disperazione, la tua paura in un bagno di presenza mentale: la pratica di invitare i semi ogni giorno per abbraccaiarli è molto salutare.
Dopo svariati giorni o settimane di questa pratica, avrai generato una buona circolazione nella tua psiche. La presenza mentale lavora come un massaggio delle formazioni interne, dei tuoi blocchi di sofferenza. Questi devono poter circolare liberamente, dentro di te, possono farlo soltanto se non ne hai paura. Se impari a non avere paura dei tuoi nodi di sofferenza, puoi imparare anche ad abbracciarli con l'energia della consapevolezza e a trasformarli."
Thich Nhat Hanh

lunedì 11 ottobre 2010

Lasciar andare

""Una volta ispirati, né il cielo né la terra si possono più trovare. Una volta raggiunto questo luogo, l'eternità è illuminata: come potrebbe esservi qualcosa dato dai Buddha?
Se volete raggiungere pienamente questo luogo, dovete lasciar andar tutto. Non cercate nemmeno il regno della buddhità o della padronanza dello Zen. E ancora meno dovreste avere amore per voi stessi o odio per gli altri. Senza far sorgere nessuna concettualizzazione, guardate direttamente: c'è qualcosa che non ha pelle o carne, il suo corpo è come lo spazio senza nessuna specifica forma o colore. È come acqua pura, perfettamente chiara. Vuoto e chiaro, si tratta semplicemente di esserne del tutto consapevoli.
Come spiegare questo principio?

L'acqua è chiara fino in profondità;
Splende senza bisogno di pulirla".

Tutto va lasciato andare. Non c'è nulla da trattenere: arrendevolezza, arrendevolezza. Trattenere vuole dire paura; lasciare è libertà. Trattenere è chiusura; lasciare è apertura. Trattenere è sforzo; lasciare è riposo. Trattenere è tensione; lasciare è calma. Trattenere è separare; lasciare è unire. Tutto è illuminato, tutto è pieno di eternità; non c'è nessuna distinzione, nessun alto o basso. Non c'è cielo e terra, non c'è samsara e nirvana. È tutto già qui, presente. Cosa andare a cercare dai Buddha? Cosa aggiungerebbero i Buddha a questo dato di fatto, a questa incontrovertibile realtà? È il tuo voler trattenere che ti fa mettere in fuga verso il Buddha, è la tua assenza dalla realtà. Fai distinzioni: tra te e ciò che vorresti essere, tra te e gli altri. Allora cerchi certe cose, fuggi da altre; vuoi migliorare la situazione, vuoi rifuggire certe condizioni. Fai il buddhista, ti interessi di zen, ecc.
Eppure non si tratta di un sapere, non si tratta di un pensiero. È qualcos'altro: è un "guardare direttamente". Quando hai lasciato la presa, come non puoi guardare direttamente? Sei immerso nella realtà, nella sua autenticità, nella sua imprevedibile verità, le barriere non ci sono più. Sei abbandonato, totalmente. Non è questione di tecniche, di nuove conoscenze, di libri, di pratiche. Non c'è nulla di complicato: è anzi la cosa più semplice che vi sia, quella che dovrebbe risultare più naturale, più immediata. È l'abbandono di qualsiasi piano, di qualsiasi escamotage, di qualsiasi strumentalismo. Non c'è nessun esercizio della volontà da mettere in atto, non è un cercare e conquistare qualcosa. È proprio il contrario: è uscire dalla gabbia della nostra volontà, fuori dai nostri devi e non devi, dai nostri bene e male, dai nostri mi piace e non mi piace. Nel senso che c'è un'altra possibilità: è quell'essere chiari, vuoti, limpidi come acqua, disponibili come lo è un lago in cui venga gettato un sasso. Sono state abbandonate le reattività, abbandonati i desideri di rivalsa, gli egocentrismi di conquiste. Quanti pesi, quante zavorre, quanta inutilità...
È così evidente tutto questo! Se non lo capiamo subito, non serviranno certo altre stupide parole per convincerci. Se non lo capiamo subito, tutti i sutra del mondo ci serviranno solo come conforto psicologico, correremo dai guru di turno per coprire i nostri vuoti, ecc. Finché mi diletterò ad aggiungere ulteriore materiale al mio bagaglio di esperienze, continuerò a vivere facendo i miei soliti giochini di anima bella, sovrapponendo filtri su filtri o sostituendoli fra loro. Ecco, appunto: lo zen di cui parliamo è un'altra cosa. È non avere bisogno di pulire l'acqua, già così splendida. C'è qualcosa che è al di là degli artifici, dei nostri tentativi di comprensione, dei pensieri più alti: è quella cosa di cui fare esperienza. È quella cosa da sentire, al di là della forma e del colore. È nella crepa di una mattonella, nel movimento di un braccio, in una parola casuale, nel prendere una posata, ... "Si tratta semplicemente di esserne del tutto consapevoli".
La consapevolezza apre, pone in un atteggiamento di disponibilità, è in sintonia con il 'lasciare la presa'. Nella pratica meditativa lo si capisce molto bene: vanno di pari passo. Consapevolezza e abbandono: consapevolezza senza abbandono rischia di scadere in un esercizio sterile di concentrazione e di chiusura; abbandono senza consapevolezza porta al torpore, all'obnubilamento mentale, alla vaghezza, all'incoscienza. Quindi: consapevolezza e apertura, consapevolezza e abbandono, consapevolezza e svuotamento. Il resto è rifiuto, negazione, opposizione, rigidità, resistenza. Sostanzialmente è mancanza d'amore."
Dal Denkoroku di Keizan, maestro zen del XIII secolo
su http://www.lameditazionecomevia.it/denko11.htm

giovedì 7 ottobre 2010

Non fare ( Ghendun Rimpoche )

"La felicità non può essere trovata attraverso un grande sforzo e volontà ma è già presente, nel rilassamento e nel lasciare andare.

Non sforzarti;non c’è niente da fare.

Qualunque cosa sorga nella mente non ha nessuna reale importanza, perché non ha una qualsivoglia realtà. Non attaccarti a essa; non identificarti con essa e non giudicarla.

Lascia che l’intero gioco accada da sé balzando in alto e ricadendo come onde – senza cambiare o manipolare alcunché – e ogni cosa svanisce e riappare, magicamente, senza fine. Solo la nostra ricerca della felicità ci impedisce di vederla. È come un arcobaleno che insegui senza mai riuscire a raggiungerlo.

Quantunque non esista, è sempre stato là e ti accompagna in ogni istante.

Non credere nella realtà di esperienze buone e cattive;esse sono come l’arcobaleno nel cielo. Volendo afferrare l’inafferrabile, ti stanchi inutilmente. Non appena apri e rilassi questa presa ecco uno spazio aperto, invitante e confortevole. Perciò usa questa spaziosità,questa libertà e agio naturali.

Non cercare più oltre. Non andare nella fitta giungla in cerca del grande elefante che è già quietamente a casa.

Non c’è niente da fare, niente da forzare, niente da volere – e ogni cosa accade da sé."

Lama Ghendun Rimpoche

sabato 2 ottobre 2010

"L'accettazione, la via rasserenante del sì" (C. Pensa)

"L'abbandono-accettazione non è un aspetto tra gli altri del cammino spirituale, [...] ma ne è, piuttosto, il cuore. Nelle parole di san Francesco di Sales: l'abbandono è la virtù delle virtù.
[...] Alla non accettazione di sé si accompagna inesorabilmente la non accettazione degli altri.
[...] L'accettazione, la via rasserenante del sì [...] deve estendersi capillarmente a tutta la nostra vita. Ma questo processo rigenerativo [...] non può aver luogo senza che, anzitutto, si instauri una seria amicizia per noi stessi [...], in luogo dell'inimicizia e della distruttività. Inimicizia e distruttività che, si badi bene, sono anche il nucleo di atteggiamenti apparentemente volti alla cura di sé, quali l'orgoglio o il narcisismo.
[...] La natura profonda, intrinsecamente luminosa, della mente-cuore è offuscata dalle afflizioni dell'attaccamento-avversione-ignoranza. [...]
La chiusura o la contrazione del cuore [...] è la contrazione contro ciò che è spiacevole ed è la contrazione intorno a ciò che è piacevole. [...] Se vogliamo, poi, il comune denominatore di avversione e di attaccamento è la paura, paura di incontrare lo spiacevole (avversione) e paura di perdere il piacevole (attaccamento). Ora l'opera della meditazione di consapevolezza [...] è, né più né meno, l'apertura del cuore, [...] allevare un'attenzione non giudicante [...].
Quanto più entriamo in contatto - mercé la consapevolezza - con la contrazione, tanto più cominciamo ad aprirci. Dunque: più entriamo in contatto con la non-accettazione o paura e sentiamo il suo effetto tagliente e divisivo, più ci rivolgiamo fiduciosi verso l'accettazione e verso il suo spirito unitivo. [...]
Dice un [...] grande maestro cristiano dell'abbandono, il Padre Jean Pierre de Caussade: «La pratica di accettare a ogni istante lo stato presente [...] può, da sola, mantenerci sempre nella pace del cuore e farci progredire molto senza ansietà, turbamento e inquietudine». [...]
Nel buddhismo un'accettazione matura si chiama equanimità [...].
Quanto più apprendiamo l'arte dell'accettazione, tanto più qualcosa cresce in noi: ci rendiamo conto che l'accettazione [...] ci dona [...] la ricchezza di una pace più salda di quella finora conosciuta. Una pace che porta con sé apprezzamento (invece di attaccamento) per ciò che è piacevole e rispetto per ciò che è spiacevole invece che avversione e paura.
[...] Oltre il vasto mare della sofferenza e dell'ignoranza, c'è altro e [...] questo 'altro' è già qui, in noi, nel mondo [...]. L''altro' impaziente [...] che [...] si possa giungere a una «Condizione di semplicità assoluta / Che costa non meno di ogni cosa. / E tutto sarà bene / E ogni sorta di cose sarà bene» (T.S. Eliot).
[...]
La facilità alla gratitudine [è il] polo opposto al dare tutto per scontato, che è una forma di indurimento, una forma di chiusura, a volte penosamente cronica. La facilità alla gratitudine è il contrario del sentirsi dolorosamente in credito, di sentire spesso - o sempre e comunque - di non essere abbastanza, di non avere abbastanza, di non ricevere abbastanza: grandi sofferenze, che la pratica ci aiuta progressivamente a comprendere e a sciogliere. [...] La consapevolezza è una grande compagna della gratitudine, la consapevolezza [...] ci fa notare con grande tranquillità tutto quello che riceviamo, [...] ce lo fa scoprire con naturalezza [...].
[...] Va crescendo la naturale prontezza alla gratitudine per piccole, piccolissime cose. Ma la gratitudine non è piccola: l'occasione è piccola per i criteri convenzionali, un saluto, una telefonata, un incontro, l'improvvisa apparizione di un bosco dopo una curva. La prontezza alla gratitudine. La capacità di meravigliarsi e dire grazie. Grazie, grazia, gratitudine" (pp. 154-164, 165-166).
Corrado Pensa, L'intelligenza spirituale su La meditazione come via

L'elefante incatenato (J. Bucay )

"Quando ero piccolo adoravo il circo, ero attirato in particolar modo dall'elefante che, come scoprii più tardi, era l'animale preferito di tanti altri bambini.

Durante lo spettacolo faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune... ma dopo il suo numero, e fino ad un momento prima di entrare in scena, l'elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle zampe. Eppure il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri. e anche se la catena era grossa mi pareva ovvio che un animale del genere potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire.

Che cosa lo teneva legato? ...

Chiesi in giro a tutte le persone che incontravo di risolvere il mistero dell'elefante; qualcuno mi disse che l'elefante non scappava perchè era ammaestrato... allora posi la domanda ovvia: "se è ammaestrato, perchè lo incatenano?". Non ricordo di aver ricevuto nessuna risposta coerente.

Con il passare del tempo dimenticai il mistero dell'elefante e del paletto. Per mia fortuna qualche anno fa ho scoperto che qualcuno era stato tanto saggio da trovare la risposta: l'elefante del circo non scappa perchè è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo.

Chiusi gli occhi e immaginai l'elefantino indifeso appena nato, legato ad un paletto che provava a spingere, tirare e sudava nel tentativo di liberarsi, ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perchè quel paletto era troppo saldo per lui, così dopo vari tentativi un giorno si rassegnò alla propria impotenza. L'elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perchè crede di non poterlo fare: sulla sua pelle è impresso il ricordo dell'impotenza sperimentata e non è mai più ritornato a provare... non ha mai più messo alla prova di nuovo la sua forza... mai più!

...A volte viviamo anche noi come l'elefante pensando che non possiamo fare un sacco di cose semplicemente perchè una volta, un po' di tempo fa ci avevamo provato ed avevamo fallito, ed allora sulla pelle abbiamo inciso "non posso, non posso e non potrò mai".
L'unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo mettendoci tutto il cuore... tutto il tuo cuore!"
Jorge Bucay, Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere, 2004, Rizzoli

venerdì 1 ottobre 2010

L'Attenzione ( C. Pensa )

"L'attenzione è subordinata al compito, al lavoro, al film. L'attenzione è al servizio di quello che stiamo facendo: se ci distraiamo non portiamo a termine il lavoro, lo facciamo male; se ci distraiamo, ci perdiamo un pezzo del film. Questa attenzione serve a farci godere il film, serve a fare il lavoro che dobbiamo fare. È funzionale e subordinata. Questa attenzione si chiama, nella tradizione buddhista, manasikàra: attenzione pura e semplice.
Per vivere, per sopravvivere, abbiamo bisogno di manasikàra.
Ma ci deve essere stato un momento, a me piace immaginare così, in cui qualcuno si è chiesto che cosa sarebbe successo se avesse lasciato che l'attenzione in se stessa fosse il valore centrale, invece di metterla al servizio di un lavoro o di uno svago. Che cosa sarebbe accaduto se l'attenzione gratuita, in sé, fosse diventato il valore centrale. Se svolgendo un compito mettiamo l'attenzione al primo posto, se cioè l'attenzione è lo scopo primario e il portare a termine il lavoro nel tempo dovuto è lo scopo secondario, c'è un netto ribaltamento rispetto a come vanno abitualmente le cose. Se è l'attenzione ad avere il primo posto, il lavoro che stiamo svolgendo diventa un supporto dell'attenzione, e questo ci porta a un sentire unificato, pacificato. Quell'antico sperimentatore avrà notato che l'attenzione gratuita, l'attenzione di per sé, l'attenzione non al servizio di altro, porta unione, unità, unificazione e pacificazione. Se ascoltiamo qualcuno non perché vogliamo fargli piacere o perché vogliamo vedere dove vuole andare a parare (queste sono forme di attenzione non gratuita, sono le forme di attenzione usuali), se ascoltiamo qualcuno con attenzione non giudicante, cioè con attenzione per l'attenzione, con attenzione gratuita, avremo anche qui un effetto di unificazione e di pacificazione. Ci siamo aperti, senza riserva, a questo ascolto".

Corrado Pensa, da "Attenzione saggia, attenzione non saggia"