martedì 16 ottobre 2007

Meditazione e filosofia (F. Bertossa)


"Le vie del domandare
Che cosa accomuna filosofia e meditazione? Potete capirlo dal fatto stesso che ce lo stiamo chiedendo. Le unisce l’atto di domandare.
Quando c’è solo l’atteggiamento del rispondere le culture si induriscono e si allontanano. Ma per arrivare a una risposta, bisogna essersi fatti una domanda. Il domandare è la cosa più preziosa che abbiamo.
Spesso si confonde la formulazione della domanda con lo stato di domanda. Lo stato di domanda può essere anche pre-verbale, non ha bisogno di una precisa formulazione, è solo aperto su qualcosa di non concluso. Ad esempio, la bellezza di questo vaso con due orchidee, chi può dire di comprenderla? Non la sappiamo penetrare e leggere a fondo, restiamo aperti su di essa. Quel senso di apertura, che è un profondo domandare, accomuna il filosofare con il meditare.
...
mai, mai e poi mai, si dà un’esperienza che non sia in primo luogo, immediatamente, di stranezza, e che solo dopo diventa “un volto noto”. Sulle prime vi è un momento subliminale, una prima matrice in cui tutto si dà in un lampo di stranezza e solo successivamente diviene parole, luci, mondo.

Questo stimolo è anche una sfida che si offre alla verifica e alla critica. Ad esempio, fate esperimenti di percezione: quando anche solo spostate lo sguardo, vi è un istante, qualche fotogramma di sconosciutezza. Ma, prima ancora, è di stranezza. E quella stranezza è dovuta alla percezione dell’esistere, alla percezione del tutto-invece-che-nulla.
Innata, profonda, radicata in noi, c’è questa coscienza di esistere. La si può ripescare, riaccendere, coltivare. Gli orientali, la tradizione del buddismo zen, lo hanno fatto. Gli occidentali lo hanno fatto solo a lampi: con le filosofie dell’esistenzialismo e della fenomenologia, con la grande arte. Ma in Occidente non sono diventate una pratica, una via. La nostra epoca è piena di panico, di smarrimento, perché questi momenti di apertura in cui tutto è strano e sconosciuto sono diffusi, ma non c’è una cultura capace di accoglierli. Al contrario, spesso sono letti come patologie.

Nella filosofia e nell’arte occidentali vi sono stati genii capaci di risvegliare ed esprimere in modo straordinario questi momenti di apertura, ma raramente di integrarli nella vita. Le persone si risvegliano all’esistenza, ma sovente ne vengono bruciate perché non ne sono dovutamente consapevoli, non ne intendono il significato e le rette imoplicazioni. L’Oriente ha coltivato questa consapevolezza e il buddismo si è reso conto che questo risveglio è il momento cruciale per l’uomo e che bene inteso può portare alla fine della sofferenza. Lo ha chiamato vacuità, shunyata. Non fondamento, ma vacuità. Stupore, sospensione. E propone una via per educarsi a stare in questo.
Un testo molto importante del buddismo, il Vimalakirti nirdesa sutra, ci dice che occorre “imparare la paziente sopportazione del non-creato”.
Buona ricerca. "

Nessun commento: