venerdì 15 agosto 2008

Scuse sincere e ringraziamenti sentiti

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"Poichè la persona narcisista tenta di edificare un senso di sè positivo sull'illusione di non avere nè difetti nè bisogni, teme che l'ammissione di un senso di colpa o di dipendenza tradisca qualcosa di vergognosamente inaccettabile. Scuse sincere e ringraziamenti sentiti saranno quindi rigorosamente evitati o gravemente compromessi nella persona narcisista, con grande impoverimento delle loro relazioni con gli altri."
Nancy Mc Williams : "La diagnosi psicoanalitica", Astrolabio Ubaldini ,1999 su : Labugiapiugrande
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"La vita è sempre oggi e oggi abbiamo bisogno del nostro dolore per fare amicizia con noi stessi, per fare pace con le nostre mancanze e per superare il nostro antico senso di mancanza.

Molte persone credono di aver bisogno di libertà quando sono già libere e rinviano il loro impegno personale nella vita negando che vorrebbero amore e non “libertà” e ignorando il fatto che nella vita adulta l’amore che si riceve non può soddisfare il bisogno non soddisfatto nell’infanzia.
Molte persone sentono di “dover fare” tante cose senza però arrivare mai a capire cosa vogliono davvero fare e cosa possono davvero fare. Continuano a fare “qualcosa” senza impegnarsi a costruire una buona vita, giorno per giorno.
Molte persone passano la vita a convincersi di “essere state ferite” e a “sentirsi ferite” e a “reagire” a tali “ingiustizie”. Chiudono il cuore, la mente e magari anche i genitali pur di non cedere, pur di non dire “mi dispiace” e tornare liberi di dire “grazie”.
In genere le persone non vogliono accettare una cosa semplicissima, cioè che la loro vita è fatta soprattutto di tanti “grazie” e di tanti “mi dispiace”.
Il percorso analitico non cura nessuna malattia, ma aiuta solo a volersi bene, a voler bene e a rinunciare alle pretese e alle illusioni. Aiuta a dire “grazie” e “mi dispiace”. "

G. Ravaglia : "Come farsi del male per non dire semplicemente “grazie” o “mi dispiace” su http://risorse-psicoterapia.org/Gr.md.htm

martedì 12 agosto 2008

La maschera

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Il gioco della maschera

La maschera nasce per mostrarmi all’altro,
nel mondo sociale.
La maschera mi nasconde all’altro, non solo,
ancor più a me stesso.

Che gioco è questo?

Perdere la faccia è l’ultima cosa che vorrei,
nei rapporti sociali.
Ritrovare me stesso è un labirinto senza fine,
se mi chiudo in me stesso.

La maschera non può abbandonare la maschera:
un gioco infernale.
La maschera ora sa di essere maschera:
una strana meraviglia.

venerdì 1 agosto 2008

Terzo senso

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Terzo senso

E’ facile trovare un doppio o triplo senso nelle parole.
Questa scoperta può avvenire in modo tragico , quando ci rendiamo conto, troppo tardi, di non aver soppesato bene il senso ambiguo di quelle parole che ci sembravano una promessa, un’occasione, un buon contratto, una certezza…
Questa scoperta può avvenire in modo creativo, quando ri-scopriamo, ancora una volta, un senso ulteriore, più profondo nel testo poetico che ora a noi, nuovamente, si rivela…
Due contesti molto diversi.
Eppure entrambi sembrano inserirsi entro la cornice linguistica di significato.


5.6 I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.
Ludwig Wittgenstein

Cosa succede quando si giunge “al limite del mio mondo” ?

La risposta di Wittgenstein è questa:

[6.52] Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi non sono ancora neppur toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.

[6.521] La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso. (Non è forse per questo che uomini cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso?)
[6.522] V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico.

Egli “sente”, e sente così fortemente da dire “noi sentiamo”, che vi è un “terzo senso” oltre e precedente il mondo linguistico di significato.
E’ questo “terzo senso”, esterno ai “problemi” umani e pertanto ineffabile, che fornisce “la risoluzione del problema della vita”.
La risoluzione “si scorge “ quando scompare il problema; perché essa è fuori dai limiti del mio mondo.
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Lucida follia

Il Macbeth di Shakespeare, nel celebre passo (atto V, scena V) di “lucida follia” scorge il limite:
“Spegniti, spegniti, breve candela! La vita non è altro che un'ombra che cammina; un mediocre attore che si pavoneggia e si dimena sul palcoscenico per il tempo della sua parte e poi non si ode più oltre. È una favola narrata da un idiota, piena di strepito e furia e senza significato alcuno.”
Tuttavia la maschera del potere, rinchiusa nel proprio castello, sente un vuoto, sente di non poter permettersi, non si permette, un diverso sentire .
Non si lascia andare al naturale dolore della perdita di Lady Macbeth :
“Avrebbe dovuto morire più tardi; non sarebbe mancato il momento opportuno per udire una simile parola. Domani, poi domani, poi domani: così, da un giorno all'altro, a piccoli passi, ogni domani striscia via fino all'ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno rischiarato, a degli stolti, la via che conduce alla polvere della morte.”
La lucida follia di Macbeth “deve” mantenere un senso anche di fronte alla perdita totale di senso.
La chiusura tragica non consente altra possibilità: anche la natura, indifferente alle vicende umane, sembra animarsi come macchina bellica e stringere d’assedio il castello.
Il “terzo senso” è stato reciso dalla tragica maschera di potere .
Fino all’ultimo, Macbeth, rifiuta di “sentire” ciò che la maschera non può sentire, un altro senso, estraneo perché totalmente fuori dal suo castello.
MACBETH: Maledetta la lingua che mi dice questo, poiché essa ha fiaccato quanto di meglio v'era d'uomo in me! E non si creda più a questi dèmoni impostori, che ci ingannano con discorsi a doppio senso:
che mantengono all'orecchio nostro la loro promessa, e poi la rompono alla nostra speranza... Io non mi batterò con te.
MACDUFF: Allora arrenditi, codardo, e vivi per essere lo spettacolo e la meraviglia di questa età: attaccheremo il tuo ritratto in cima ad un palo, come si fa dei nostri più rari esseri mostruosi, e sotto ci scriveremo: "Qui potete vedere il tiranno".
MACBETH: Io non mi arrenderò, per baciare la terra ai piedi del giovane Malcolm, e per esser maltrattato dalle imprecazioni della marmaglia. Sebbene il bosco di Birnam sia venuto a Dunsinane, e mi sia di fronte tu, che non sei stato partorito da una donna, pure io tenterò l'ultima prova; io protendo dinanzi a me il mio scudo di guerra: avanti, Macduff, e sia dannato colui, che per il primo grida:
"Fermo, basta!".

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Connessione di base

L’espressione “senso di vuoto” presuppone “un pieno”.
Questo pieno è nel mondo categoriale, nel “mio mondo”, come detto da Wittgenstein.
L’angoscia sottesa nel dramma o nelle tragedie che cercano di affrontare questo “senso di vuoto” viene chiamata “indicibile” in quanto rimanda a qualcosa che è fuori dal “mio mondo”.
La domanda si ripete ed il dramma segue il suo corso perché il tentativo di colmare la “percezione di dis-connessione” , oscura il senso più profondo di questa percezione, di questo ”tornare sul luogo del delitto”, di questa tragedia che si estende, di questa pagliacciata che si ripete…
Una percezione si è chiusa. L’espressione “senso di vuoto” indica e naconde questa chiusura.
Crisi significa separazione.
Crisi significa crescita.

"Nulla v'è di così insensibile, brutale o scatenato dalla rabbia che la musica, finché se ne prolunghi l'eco, non trasormi nella sua stessa natura. Colui che non può contare su alcuna musica dentro di sé, e non si lascia intenerire dall'armonia concorde di suoni dolcemente modulati, è pronto al tradimento, agli inganni e alla rapina: i moti dell'animo suo sono oscuri come la notte, e i suoi affetti tenebrosi come l'Erebo.
Nessuno fidi mai in un uomo simile. "
William Shakespeare Il mercante di Venezia, Atto V, scena I

venerdì 18 luglio 2008

"Avere attenzione"

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"Avere attenzione" si può declinare in due modi:

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"Avere attenzione": avere cura; avere interesse;avere a cuore;avere simpatia/sintonia....


Questo 'avere' è in effetti un 'dare'.


Con l'attenzione l'essere si protende verso l'altro, il mondo.

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"Avere attenzione": richiedere che l'altro, l'intero mondo "gli presti" la sua attenzione.


Qui in effetti non c'è un "avere" ma piuttosto un buco da colmare.


Una pretesa maschera l'essere.

Conclusione: E' logico che chi "non ha attenzione", dica che "vuole avere attenzione"; ma spesso non sa quel che dice.

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mercoledì 16 luglio 2008

Spettatori o Testimoni?

Una ricerca sull'intreccio, ma anche sulla differenza, fra spettatore e testimone trovo in un interessante articolo di Beppe Sebaste dal titolo "Siamo tutti testimoni".
Per sottolineare la sottile ma radicale differenza fra queste due figure sarebbe stato opportuno, forse, aggiungere, nel titolo, un bel punto interrogativo :"Siamo tutti testimoni ?"

L'articolo, apparso sull'Unità l'11 aprile 2005, inizia parlando del pellegrinaggio a San Pietro per i funerali del papa e così conclude:

"Ora, il ritorno oggi prepotente del bisogno di testimoniare di persona, da cosa dipende se lo spazio della testimonianza risulta del tutto saturo dai grandi racconti televisivi, se tutti siamo al corrente di tutto in presa diretta? Cosa indicano insomma i pellegrini di San Pietro? Quel desiderio di presenza, di essere testimoni, rileva del desiderio di riscattare la propria vita individuale dai grandi racconti che sommergono le nostre vite ordinarie, di strappare uno spazio personale di racconto al fluire passivo e omogeneo delle nostre vite di spettatori, così povere di esperienze. L’ultimo paradosso della testimonianza è dunque il seguente: è per sottrarsi alla testimonianza unica, all’iperrealtà dell’omologazione televisiva, che migliaia di “testimoni” volontari si sono messi in moto e hanno fatto l’evento, dando spettacolo loro malgrado. Semplicemente per esserci, fisicamente, live, in prima persona. Perché saturi dello spettacolo della “vita in diretta” alla Tv, dell’omogeneizzazione del mondo quotidianamente offerta, e anche più volte al giorno, che annulla e dissolve ogni memoria nell’eterno presente che avviene sotto i nostri occhi. E’ per protestare sommessamente a questa perdita che una massa di individui ha scelto di ricorrere alla propria memoria personale, diventando testimoni per eccellenza: coloro che trasmettono narrativamente un avvenimento, in una catena di testimonianze. Se testimoniare significa creare l’evento, l’analisi delle testimonianze e della loro narratività è la chiave per comprendere la logica di ciò che accade, una logica suscettibile di scavare e resistere anche alla globalizzazione: raccontare storie. Essere testimoni, raccontare gli eventi, significa praticare la “politica”, l’unica divinazione possibile, quella che già nel Settecento si chiamava “divinazione del presente”.
Beppe Sebaste dotcom

lunedì 14 luglio 2008

Lo spazio e il dovere dello scrittore (N. Gordimer)

"Dovere, compito, significato. Per attribuirli credo che dobbiamo innanzitutto definire che cosa sia la testimonianza. Non è semplice. Ho preso il dizionario e ho visto che le definizioni riempiono più di una colonna a caratteri minuti. Testimonianza: "Attestazione di un fatto avvenimento o dichiarazione, dimostrazione, prova. Testimone: "Persona che assiste a un fatto ed è in grado di attestarlo in base alla sua personale osservazione".

Poesia e romanzi sono processi cui lo status di testimonianza è attribuito dal dizionario Oxford riferendolo alla "testimonianza interiore" , le vite di singoli uomini, donne e bambini che devono ricomporre dentro di loro le certezze frantumate, vittime anch'esse, al pari dei corpi sotto le macerie di New York e dei morti in Afghanistan. Kafka dice che lo scrittore vede tra le rovine "altre (e più )cose ... è uscire d'un balzo dalla fila degli assassini, è vedere quello che avviene veramente".

Il dualismo di interiorità e mondo esterno, è questa l'unica essenziale condizione esistenziale dello scrittore come testimone.
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Flaubert scrive a Turgenev: "Ho sempre cercato di vivere in una torre d'avorio, ma una marea di merda sta premendo alle sue mura e minaccia di distruggerne le fondamenta".
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la grandezza della testimonianza interiore di Conrad scopre che il "cuore di tenebra" non è la postazione senso, quello dell'immaginazione. Il "realizzare" ciò che sta accadendo viene da quella che sembra una negazione della realtà, il passaggio degli avvenimenti, dei motivi, delle emozioni, delle reazioni, dall'immediatezza a quel senso stabile che è il significato. Se accettiamo che la "contemporaneità" abbraccia il secolo in cui noi tutti siamo nati, al pari di quello appena iniziato in modo così crudo, arriviamo a molti esempi di questa quarta dimensione di esperienza che è lo spazio e il dovere dello scrittore .
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Non c'è torre d'avorio che possa sostenere l'assalto della realtà che preme alle mura, come notava sgomento Flaubert. Nel testimoniarla la fantasia non è irreale ma rappresenta la realtà più profonda. L'esigenza di questa realtà profonda non potrà mai consentire il compromesso con la saggezza della cultura convenzionale e ciò che Milosz chiama le bugie ufficiali. Quell'eminente intellettuale del rifiuto del compromesso, Edward Said, si chiede chi, se non lo scrittore, debba "svelare e chiarire i contesti, la sfida e la speranza di sconfiggere il silenzio imposto e la quiete normalizzata del potere". L'ultima parola sulla letteratura di testimonianza viene di sicuro da Camus: "Il momento in cui non sarò nulla più che uno scrittore, potrò smettere di essere uno scrittore".


di Nadine Gordimer


(Pubblicato su La Repubblica nel 17 agosto 2002 - Traduzione di Emilia Benghi)

venerdì 11 luglio 2008

L'attore, lo spettatore, il testimone

"Un giorno (era più o meno il 1963) abbiamo detto di no a tutto questo. La partecipazione attiva degli spettatori non è possibile in queste condizioni…
se cerchiamo la partecipazione attiva degli spettatori siamo condannati o a violarli, a opprimerli, oppure gli spettatori stessi sono ben contenti di recitare come clown…
In quel momento credo che tutti gli spettatori hanno partecipato direttamente ...

quello che hanno voluto fare è essere testimoni, non dimenticare nessun particolare, per poter dare la loro
testimonianza.
Questa presenza è stata veramente totale… "
Jerzy Grotowski, Il teatro è una tigre che ci assale, brani raccolti da Franco Quadri, in "Sipario", n. 284, 1969, p. 17 su http://www.elfland.it/
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L’attore, agendo, è nel presente
ma, se occupa tutta la scena,
inebriato di protagonismo,
vive la maschera della vita.

Lo spettatore, guardando, è fuori
e partecipando dall’esterno ai tempi della vita,
ripercorre il dramma della maschera
di essere presente essendo altrove.

Il testimone, totalmente presente,
con consapevolezza che amplia la scena,
oltre il dramma dell’attore,
oltre lo schermo dello spettatore,
nel vivente vede, testimone, sé stesso.
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